Cinque mesi di navigazione. Dio mio. Passando da un oceano all’altro, doppiando capi, respirando aria salmastra da novembre ad aprile, bruciandosi la pelle per il sole o per il vento in faccia. E quel che è peggio (peggio della peste tifoidea, della sete, delle cacche di albatros dalle grandi ali e dall’ottima mira) quel che era peggio – per gli spagnoli – quel francese a bordo. Tutto ben vestito, acculturato, con le sue cartelle sottobraccio e i suoi studi di medicina, a guardar sottecchi e a diffidare. Tale Joseph Dombey. D’altronde strano era strano: girava voce che per raggiungere Madrid si fosse fatto la strada a piedi da Parigi, erborinando per non perder tempo. Per una spedizione che doveva essere franco-iberica, à la pair, venne nominato solo ‘accompagnatore’ agli ordini dei più giovani Ruiz e Pavon (così imparava, il francese estroso).
Sfortuna dopo sfortuna, malanni esotici gastrointestinali, ruberie inglesi di parte della collezione, rientro in Spagna con sequestro di parte del bottino botanico, anche l’avventuroso imbarco per rientrare finalmente in Francia.

Così racconta la Wigandia urens – leggermente indispettita ma comunque elegante nel suo punto di blu ametista – che stava là in Perù quando la trovarono (chi esattamente non si sa) e si chiamava altrimenti (El tabachero de Caracas, forse? O meglio Ortiga de tierra caliente…), prima di dover portare il nome di un luterano tedesco, chissà mai perchè.